Omelia della Solennità del Corpus Domini

Fratelli e Sorelle carissimi, la figura del re di Salem entra in scena di colpo, sorprendentemente, nel cammino di Abramo. In terra cananea, piena zeppa di idoli, ecco che a Salem, che coincide con Gerusalemme, c’è un monoteista puro, un re sacerdote di Dio Altissimo, che Abramo riconosce dandogli la “decima di tutto”. La figura di Melchisedek fa pensare che in terra Cananea ci fosse una anche se esile tradizione monoteista, non però legata ad una dinastia regale o ad un’etnia. Un popolo monoteista Dio lo otterrà, infatti, da Abramo e ben si sa che con il passare del tempo, anche a Gerusalemme regneranno re idolatrici (Cf. Gs 10,1; ecc.). Abramo – reduce da una vittoria militare – apparve a Melchisech come il futuro conquistatore della terra di Canaan; e Melchisedek apparve ad Abramo come il sacerdote al quale fare capo, il re sacerdote investito da Dio di un sacerdozio al quale dare la decima dai propri averi (Gn 14,20). Questo fatto non è senza importanza perché il futuro Messia è visto sacerdote al modo di Melchisedek: “Tu sei sacerdote per sempre al modo di Melchisedek”. Il sacerdozio levitico, detto così da Levi, capostipite della tribù alla quale venne affidato il compito sacerdotale ai piedi del Sinai, è dichiarato inferiore a quello di Melchisedek, perché Levi procede per via di generazione da Abramo come capostipite, il quale si riconobbe dipendente dal sacerdozio di Melchisedek (Cf. Eb 7,4-10). Veramente le poche righe che abbiamo letto sono affascinanti, e ci fanno vedere e riflettere sull’importanza di Gerusalemme nella storia biblica. A ciò bisogna aggiungere che il territorio di Mòria (Gn 22,1) (Forse va letto ‘eres haemori: terra degli Amorrei. I Gebusei che abitavano a Gerusalemme quando Davide conquistò la città erano, infatti, un clan degli Amorrei), luogo designato per il sacrificio di Isacco, secondo una tradizione coincide con l’area della collina (har hammoriyyah) dove poi sorgerà il tempio di Gerusalemme (Gs 10,5; 2Sam 5,6; 2Cr 3,1). Tale luogo accrebbe la sua importanza anche perché apparve a Davide l’Angelo del Signore (1Cr 21,16s). Detto questo la figura di Melchisedek ci appare veramente come una figura importante emblematica, e non occasionale. Egli offrì pane e vino a Dio Altissimo, ed è questo il punto che oggi, solennità del Corpo e Sangue di Cristo, ci interessa particolarmente, perché questa offerta è realmente la figura dell’Eucaristia. L’offerta di Melchisedek non è semplicemente il dono delle primizie dei campi, ma degli alimenti fondamentali di una mensa di gioia e di pace. Tale oblazione è il riconoscimento che da Dio procede la concordia, la comunione tra i fratelli, che ha un momento forte nella condivisione della mensa; e se c’è il riconoscimento di ciò c’è anche invocazione che questo avvenga sempre. Proprio sulla linea della promozione dell’unione tra i fratelli va letto il miracolo della moltiplicazione dei pani e dei pesci. Tutto nell’episodio parla di comunione con Dio e con i fratelli centrata in Cristo, che prende i pani e i pesci e con lo sguardo rivolto al cielo li benedice, e li spezza. In questo gesto liturgico c’è l’amore del Cristo per il Padre, la preghiera del Cristo per la folla che ha fame. Dopo la moltiplicazione dei pani li consegna ai discepoli. Si legge: “Li diede ai discepoli perché li distribuissero alla folla”; è il gesto di una carità che coinvolge i discepoli, in una stretta comunione con lui, il Messia e la povera gente affamata. Ma anche la medesima gente viene disposta in modo tale da fare comunione con il Cristo. La distribuzione poteva essere organizzata con dodici file facenti capo ai dodici apostoli, fermi al loro posto, e poi la gente si sarebbe sistemata liberamente per mangiare. Ma non fu così, subito vennero formati gruppi di cinquanta persone e furono gli apostoli a muoversi, gruppo dopo gruppo. C’è qui tutta una lezione di ecclesiologia di comunione che si può cogliere senza difficoltà. I gruppi furono costituiti perché ci fosse comunicazione tra di loro, altrimenti c’era il rischio che ciascuno stesse per conto proprio o solo con quelli di sua conoscenza e simpatia. A questo punto si potrebbe pensare agli apostoli come dei semplici camerieri, ma sarebbe un errore; essi non portarono solo del cibo, ma anche Cristo vivo e vero tra le genti, portarono il pane creato dal Cristo e spezzato in quel medesimo tempo dal Cristo: portarono l’amore di Cristo che li aveva profondamente toccati nell’intimo del proprio cuore. È poi anche i discepoli mangiarono dello stesso pane, anche se il testo non lo dice, ma è ovvio. Indubitabile, tutto rimanda all’Eucaristia istituita dallo stesso Cristo nell’Ultima Cena con i suoi, al ministero sacerdotale, alla comunione in Cristo dell’assemblea cristiana in ogni Santa Messa. L’episodio della moltiplicazione dei pani e dei pesci è riportato nel Vangelo di Giovanni poco prima del discorso di Gesù sulla necessità di mangiare la sua carne e bere il suo sangue (Gv 6,53s). Un discorso duro, che produsse una selezione tra i discepoli: molti se ne andarono, infatti. Un discorso che prese le mosse proprio dal miracolo della moltiplicazione dei pani e dei pesci, inteso dalla folla come un miracolo di abbondanza per saziare la fame (Gv 6,26): “Voi mi cercate non perché avete visto dei segni, ma perché avete mangiato di quei pani e vi siete saziati. Datevi da fare non per un cibo che non dura…”. Un discorso certo duro, ma chiaro se rapportato all’Agnello destinato al sacrificio, la cui carne deve essere mangiata e il cui sangue deve essere bevuto, affinché si abbia la liberazione dall’Egitto del peccato. Giovanni Battista aveva preparato il popolo chiamando Gesù (Gv 1, 29): “Ecco l’agnello di Dio, colui che toglie il peccato del mondo!”. Certo l’ostacolo per i suoi ascoltatori era la possibilità di pensare all’antropofagia. Faceva problema il mangiare la carne, e di più lo faceva il bere il sangue, perché era vietato dalla Legge Giudaica del tempo (Lv 3,17; ecc.); ma il discorso di Gesù si collocava nella luce del sangue consacratorio ed espiatorio di se stesso. Infatti, Mosè si servì del sangue delle vittime sacrificate (Es 24,8) per aspergere il popolo in segno di alleanza con Dio. Ora il sangue di Gesù è il sangue della nuova ed eterna alleanza, che riconsacrerà l’interno dell’uomo, il cuore dell’uomo, a tempio santo di Dio; il suo sangue sarà bevuto proprio perché riguarderà la rinnovazione del cuore dell’uomo. Il sangue non poteva essere mangiato perché riservato al Signore e per questo veniva sparso attorno all’altare (Lv 3,13), ma ora si tratta del sangue dell’Uomo-Dio, offerto come bevanda perché porti nell’uomo una nuova vita in Dio. Non bisognava lasciare il Signore di fronte a queste sue parole, bisognava credergli. Ma attorno a Gesù tanti non credevano e gli stavano accanto solo per curiosità o per coglierlo in errore. Gli apostoli non se ne andarono (Gv 6,67): “Signore da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna”. Questo aveva trattenuto i discepoli: le “parole di vita eterna”. Queste erano il punto fondamentale del discorso di Gesù sul mangiare la sua carne e bere il suo sangue, per essere ammessi nella Gloria del Padre. Nell’ultima cena, gli apostoli non dubitarono che sotto le apparenze del pane e del vino c’era il suo Corpo e il suo Sangue. Non erano ancora in possesso di una teologia evoluta sulla reale presenza eucaristica del Cristo, ma capirono che essa era vera, reale; misteriosa, ma non assurda. Credettero: avevano di fronte il Messia, il re, il nuovo sacerdote alla maniera di Melchisedek (Eb 5,6; 7,11; 7,15), non per un’investitura legata all’appartenenza a un gruppo tribale, ma per un’elezione personale da parte di Dio Padre. Gli apostoli credettero, ma non afferrarono nell’ultima cena, per la loro pesantezza di cuore (Cf. Lc 24,25), il contenuto sacrificale che le parole dell’istituzione presentavano; ma poi in un secondo tempo compresero il vero significato autentico dell’Eucaristia. L’altare è una mensa, è una realtà conviviale dove i fratelli in Cristo crescono nell’amore reciproco; dove si mantengono in vita per mezzo di quel Pane, che non è più pane, ma il Corpo del Signore; dove per mezzo di quel Vino, che non è più vino, ma il Sangue del Signore. L’altare è mensa, ma, è ancor prima un luogo sacrificale dove si ha la riattualizzazione, sotto i segni sacramentali, dell’unico sacrificio di Cristo sulla Croce. Cosa dobbiamo dire oltre queste considerazioni di fede nell’Eucaristia? Certo, un grazie a Dio per un così grande dono. Indubitabile, esortare ad una partecipazione alla Messa che sia viva, nell’offerta di noi stessi al Padre in unione alla Vittima santa, così da crescere nell’amore a Dio e nella carità reciproca, fonte di diffusione della carità nel mondo, poiché questo ci dice Gesù (Gv 14,35): “Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri”.

Laudetur Iesus Christe. Semper Laudetur

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