Omelia della III Domenica di Quaresima

Fratelli e Sorelle carissimi, i dieci comandamenti che Mosè ricevette sul Sinai sono degli imperativi in perfetta armonia con la severità della teofania sul monte. Ma il tono di questi imperativi è mitigato, pur rimanendo il comando, nel libro del Deuteronomio (6,4s). Il tono è improntato all’invito ad ascoltare: “Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, unico è il Signore. Tu amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze. Questi precetti che oggi ti do, ti stiano fissi nel cuore”. L’accento delle parole del Deuteronomio sono sull’amore che si deve a Dio, che ha dimostrato sommo amore liberando il popolo dall’oppressione egiziana, anche le “dieci parole” sono improntate all’amore. L’amore di Dio per il suo popolo è presentato con la gelosia che egli prova per esso, sempre tentato di aderire ad altri dei: “Perché io, il Signore, tuo Dio, sono un Dio geloso”. La gelosia di Dio per il suo popolo non ammette che si formino divisioni sulla base di altri culti. Il padre che devia dalla fede in Dio e trasmette ai figli la sua deviazione perché si perpetui deve sapere che la sua discendenza non reggerà. Dio punisce i singoli in base alle loro colpe personali, ma certo non benedice la stirpe degli empi che andrà in rovina (Sir 16,4; 40,15). Le “dieci parole”, sono dunque improntate all’amore. Dio ha liberato il suo popolo dall’Egitto rendendo nulli tutti gli idoli dell’Egitto e tutte le magie dell’Egitto. Egli è l’unico Dio vivo e vero e Israele dovrà essergli fedele, perché è stato liberato da una schiavitù spietata. “Non pronuncerai invano il nome del Signore, tuo Dio, perché il Signore non lascia impunito chi pronuncia il suo nome invano”; parole queste che indicano come nella preghiera deve essere sempre presente il cuore. Una preghiera senza amore è nominare il nome di Dio invano, cioè solo per farsi vedere, per passare per giusti, credendo per di più di poter ingannare Dio. Sappiamo che Israele molte volte nominò il nome di Dio invano nelle sue liturgie al tempio. Il profeta Isaia diceva al proposito (29,13): “Questo popolo si avvicina a me con la sua bocca e mi onora con le sue labbra, mentre il suo cuore è lontano da me”. Testo questo citato da Gesù (Mt 15,8-9) riguardo ai farisei e agli scribi. Una preghiera in cui è assente il cuore è precisamente “nominare il nome di Dio invano”. Una preghiera dove è rifiutata la verità è nominare il nome di Dio invano. Il fatto è ampiamente presente anche oggi. Alcuni mi hanno detto espressamente che per ingannare gli altri, dopo aver sostenuto una posizione contro la Chiesa, o contro l’unità famigliare, si sono messi a pregare davanti al Santissimo Sacramento con volto ieratico, trasfigurato, creando disorientamento. “Come? Uno che dice eresie e poi è pieno d’ardore nella preghiera? Che non abbia ragione lui?”. No! Non ha ragione lui. Sta semplicemente nominando il nome di Dio invano ed è un ipocrita come lo erano gli scribi e i farisei. Dio vuole amore autentico. Facile poi comprendere che “non ucciderai” è un comandamento d’amore che riguarda il prossimo, e così gli altri comandamenti. “Non commetterai adulterio”; qui l’adulterio è inteso non solo come infedeltà coniugale espressa, ma anche come peccato di fornicazione coi culti idolatrici, che prevedevano, nel mondo cananeo, orge rituali con prostitute sacre. “Non desidererai la moglie del tuo prossimo”; si intende il desiderio di avere la moglie del prossimo: pensiero esecrabile. Gesù presenterà il fomite di quel desiderare, cioè la concupiscenza (Mt 5,27). “Non fornicare” si legge nei catechismi sulla scorta della Scrittura, intendendo ogni forma di disordine nel modo di vivere la propria sessualità. La Scrittura presenta il divieto della fornicazione e dell’impudicizia (Cf. Lv 20,11-21; Dt 23,18; Tb 4,12; Sir 23,6; Sap 14,26; Mc 7,21; 1Cor 6,18; 10,8; 2Cor 12,21; Ef 5,5; Eb 12,16; Ap 2,14). La legge di Dio è dunque centrata sull’amore a Dio e ai fratelli e al rispetto della propria identità di persona fatta ad immagine somiglianza con Dio. Il Vangelo ci presenta il Tempio di Gerusalemme come un luogo dove si erano stabiliti mercanti avidi di denaro. La domanda di capi di bestiame per i sacrifici aveva incontrato un’offerta avara, spilorcia, disonesta, proprio all’interno dei cortili del tempio. Così il tempio era diventato (Cf. Mt 21,3) “un mercato di ladri”, dove si facevano affari d’oro. L’acquisto veniva fatto per mezzo della contrattazione al ribasso a partire da una cifra presentata dal venditore. Così nel tempio c’era tutt’altro che spirito di silenzio e di preghiera. Il denaro aveva invaso il tempio. Gesù non poteva che fare quello che fece: “Gettò a terra il denaro dei cambiamonete”. Non era atto di ira, ma di sublime zelo per la casa del Padre suo. Un gesto anche simbolico rivolto ad affermare che egli è il Figlio di Dio: “Portate via di qui queste cose e non fate della casa del Padre mio un luogo di mercato”. Non erano stati introdotti nel tempio idoli come al tempo dei re, ma era stato introdotto nel tempio il dio Mammona, indubbiamente con il beneplacito e la cointeressenza dei sacerdoti. I Farisei, ma anche i Sadducei, erano (Cf. Lc 16,14) “Attaccati al denaro”. Lo si sapeva bene che l’attaccamento al denaro produce un’arsura continua per il denaro (Qo 5,9): “Chi ama il denaro non è mai sazio di denaro”. Il denaro vuol dire potere sugli altri, vuol dire avere donne, vuol dire godere dell’invidia degli altri. Trionfava nel tempio la voglia di ricchezze e di onori. I comandamenti di Dio erano stati elusi. Si aveva un altro Dio. C’era corruzione. Gesù continua la sua opera senza scoraggiarsi. I miracoli producono adesione, una prima adesione: “Molti, vedendo i segni che egli compiva, credettero nel suo nome. Ma lui, Gesù, non si fidava di loro”. Questa folla di miracolati si schiererà nel momento della passione contro Gesù, ritornerà a Gesù dopo, pentita di fronte alle parole di Pietro (At 2,37). Bisogna non cessare di seminare, fratelli e sorelle, e anche se ci troviamo di fronte all’incomprensione, al passaggio all’avversario dei beneficati; dobbiamo sapere che dopo il nostro sacrificio ritorneranno non dico a noi, ma a Cristo. Coloro che subiscono persecuzioni sembrano perdenti. Il mondo li considera stolti, perché abbracciano la croce rinunciando a perseguire ricchezze e onori, ma sono vincenti. La croce di Cristo è stoltezza per il mondo; lo era allora, lo è oggi. Ma la stoltezza della croce, dice Paolo, è sapienza. I Greci cercavano la sapienza, cioè concezioni filosofiche che soddisfacessero intelletti avidi di conoscere, ma nello stesso tempo avidi di coniugare il vizio con la verità. Una sapienza filosofica consolatoria per far tacere l’urlo delle anime di fronte al vizio. Dalla sapienza cercavano il benessere del far tacere la coscienza, cosa che non riesce. I Giudei cercavano i miracoli, chiedevano i miracoli, per stare bene. Per avere una fede che non implicasse sforzo di conversione, e anzi una fede che chiede i miracoli per essere nel benessere (Gv 6,26): “Mi cercate non perché avete visto dei segni, ma perché avete mangiato di quei pani e vi siete saziati”. All’ombra del tempio c’era il trionfo del denaro. I pagani non cercavano altro. Paolo invece annuncia Cristo Crocifisso, “Scandalo per i Giudei”, perché attendevano un Messia ricco e agguerrito militarmente, che doveva portare Gerusalemme al trionfo su Roma. “Stoltezza per i pagani”, perché la croce urtava la loro sapienza coniugante la verità col vizio e perciò deforme nei suoi risultati. Il tempio di Gerusalemme é passato, era solo una figura di un nuovo Tempio. Gesù è questo Tempio; il suo Corpo, la sua Umanità, dove abita la pienezza della divinità (Col 2,9). Un Corpo consumato dall’amore nell’accettazione del sacrificio della croce, ma risorto e destinato ad essere eterno Tempio. Noi misticamente dimoriamo in quel Tempio, che fa di tutti noi quell’unità che si chiama Chiesa.

Laudetur Iesus Christe. Semper Laudetur

Precedente I SEGNI DEI TEMPI: DIRETTI VERSO IL GIUDIZIO Successivo Devozione a Maria che scioglie i nodi