Omelia della I Domenica di Quaresima

Fratelli e sorelle carissimi, Gesù, dopo il battesimo nel fiume Giordano, fu condotto dallo Spirito Santo nel deserto; fu condotto dall’amore per un tempo di penitenza, digiuno e preghiera. Digiuna come un uomo in carne e ossa, non è un digiunare miracoloso, senza fame; è un vero digiuno. Ciò che Gesù cerca nel deserto non è precisamente di essere tentato dal demonio, ma di vivere la penitenza espiatrice per i peccatori, ponendosi deciso sulla strada che conduce al sacrificio totale di sé stesso che terminerà con la croce. Gesù sa, che il tentatore verrà per ostacolare il suo cammino di salvezza per tutte le anime. Sa che uscirà allo scoperto per un attacco frontale sentendosi all’indomani della sconfitta; sa che nella sua più grande superbia proverà a vincerlo. Gesù sa e si prepara alla scontro, poiché andando nel deserto si è posto in un totale rifiuto di tutto ciò che è onore, ricchezza e senso, per abbracciare la penitenza a favore degli uomini, per liberarli dal peccato e dalla morte stessa. Quaranta giorni Gesù soggiornò nel deserto. Gesù, già pubblicamente consacrato Messia, si unisce nel deserto a tutta l’umanità peccatrice, ponendosi a capo di essa nella direzione del sacrificio, per farla entrare in una nuova terra promessa, che sarà quella spirituale dell’unione con Dio, verso la pienezza dell’incontro eterno in Paradiso. Il diavolo alla fine, quando vide che Gesù era stremato dalla fame si mosse, tentando di dirottarlo verso il suo consiglio. La fame era sofferenza, e satana era pronto a presentarla come inutile. Se Gesù, invece, avesse dato soddisfazione alla sua fame, ecco che avrebbe imboccato la strada giusta per essere gradito dagli uomini. Questa la prospettiva di satana che, gli presentò che un piccolissimo atto di alleanza con lui gli avrebbe aperto le porte del mondo; sarebbe diventato il conquistatore travolgente delle moltitudini. Se non avesse accettato il suo nauseante aiuto, allora, gli avrebbe reso la vita un inferno. Se poi voleva conquistare a sé il tempio doveva buttarsi giù dal pinnacolo, senza paura, visto che gli angeli lo avrebbero sostenuto: tutti di fronte ad un tale evento lo avrebbero acclamato loro re. Gesù risponde ai tre assalti del tentatore con la parola della Sacra Scrittura. È trincerato in sé stesso, nell’unione obbediente al Padre. Non discute con satana, la cui dialettica insinuante, baluginante superbia, senso, oro, successo, tenta di avvolgerlo. Gesù rimane nella preghiera, in una posizione di rifiuto totale di tutte le risonanze che il suo più acerbino nemico gli vuole suscitare nella carne. Lo scontro si conclude con la fuga ed una vergognosa sconfitta del nemico, che furibondo si mette ad organizzare una macchina di odio verso Gesù, per piegarlo col dolore, visto che le lusinghe del potere e del successo gli sono state rifiutate in modo reciso. La vittoria di Gesù è a nostra disposizione dal momento che per il Battesimo siamo stati innestati in lui. Siamo stati rigenerati nella grazia dello Spirito Santo e abbiamo pronunciato le parole della rinuncia del mondo, delle sue massime, delle sue pompe, e la rinuncia di tutte le seduzioni del maligno. E principalmente abbiamo professato la nostra fede. Certo, tutto ciò l’hanno fatto per noi i nostri genitori, ma poi noi, istruiti su Cristo, abbiamo posto il nostro atto personale, sia verso la rinuncia, sia verso la professione di Fede. Le rinunce battesimali non sono un atto formale, ma sono una scelta di campo che deve sempre rimanere; abbiamo scelto Cristo, no il maligno. Non è una professione in astratto, ma la realtà della nostra unione con lui e con tutta la chiesa sua sposa. Ogni professione di fede è un evento vivo, ricco di adesione a Cristo. San Paolo ci dice, infatti, che non basta la bocca, ma ci vuole anche il cuore; anzi l’atto di fede si sviluppa all’interno del nostro cuore, dopo che la verità ha toccato la mente. Noi credenti, di fronte al mondo dobbiamo professare la nostra fede, certo tenendo presente che dobbiamo essere candidi come colombe e prudenti come serpenti, ma dobbiamo professarla con coraggio ed in ogni situazione della nostra vita. Professare la fede è avere il pensiero di Cristo (Cf. 1Cor 2,16. E qui possiamo rivolgerci l’interrogativo se sempre noi pensiamo secondo Cristo, o secondo l’uomo. La nostra vita di cristiani è sicuramente drammatica, piena di imprevisti, di ostacoli e sofferenza ma, non tragica però. Drammatica perché siamo dei militi in battaglia, non contro creature fatte di carne e sangue come dice san Paolo (Cf. Ef 6,12), “ma contro i Principati e le Potenze, contro i dominatori di questo mondo di tenebra, contro gli spiriti del male che abitano nelle regioni infernali”. Il popolo di Israele aveva la sua professione di fede fondata nel ricordo della sua liberazione dall’Egitto. Noi l’abbiamo nella viva adesione al Cristo morto e risorto. Non semplicemente ricordiamo, ma viviamo l’evento pasquale della nostra liberazione dal peccato, poiché partecipiamo all’unico sacrificio di Cristo, sacramentalmente presente nella celebrazione Eucaristica, che è il nuovo rito pasquale. Il popolo di Israele fu condotto alla libertà dalla schiavitù egiziana, noi siamo stati condotti alla libertà di saperci donare, alla libertà dall’assedio degli onori, delle ricchezze e del senso. Ecco la grandezza portata da Cristo: l’uomo si realizza nel darsi agli altri. Questa è la vera libertà. Satana presenta una libertà che è amara schiavitù, che è distruzione. La libertà proposta da satana è tragica; dona un attimo di sporca giocondità e riserva un’eternità di orrore e disperazione.

Laudetur Iesus Christi. Semper Laudetur

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