Omelia della Domenica dell’Ascensione del Signore

Fratelli e Sorelle carissimi, Gesù aveva detto agli apostoli (Gv 14,28): “Se mi amaste, vi rallegrereste che io vado al Padre, perché il Padre è più grande di me”. Con queste parole Gesù annunciava la sua ascensione al cielo; il suo trionfo sancito dall’abbraccio del Padre, che è più grande di lui. Più grande non nella diversità della natura, poiché la Trinità è Una e Indivisibile nella natura (Cf. Gv 10,30), ma più grande perché il Figlio è generato dal Padre – con generazione eterna, senza principio -, ed è più grande in quanto il Figlio, incarnandosi, si è posto servo del Padre, pur non cessando di essere uguale al Padre. Ora il servo salirà al Padre dopo che nella natura umana assunta è stato in tutto obbediente a lui, dichiarandosi in tal modo davanti agli uomini Figlio di Dio. I discepoli dovevano rallegrarsi, dunque, che egli andava al Padre. Ma i discepoli dovevano rallegrarsi anche per se stessi perché il Cristo salendo al Padre, attraverso la sua morte risurrezione e ascensione, li avrebbe portati nel suo cuore, aprendo così per loro il cielo, il santuario non fatto da mani d’uomo, come abbiamo ascoltato dalla lettera agli Ebrei. Ora salendo al cielo ha fatto sì che in nostri cuori siano rivolti al Signore, siano rivolti verso l’alto; così come diciamo nella celebrazione che stiamo compiendo: “In alto i nostri cuori: Sono rivolti al Signore”. Ma questo essere rivolti al Signore non può tradursi in un’astrazione dal presente, dalla storia. Per questo due angeli dicono agli apostoli: “Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo? Questo Gesù, che di mezzo a voi è stato assunto in cielo, verrà allo stesso modo in cui l’avete visto andare in cielo”. I cuori rimangono rivolti al Signore, ma gli occhi del corpo lo rivedranno al suo ritorno. L’uomo riavendo il corpo lo vedrà anche con gli occhi del corpo. Nel futuro ci sarà la ricomposizione del nostro essere, fatto di anima spirituale e perciò immortale, e di corpo mortale, ma che risorgerà eternamente immortale. E dunque bisogna tendere a quel giorno rimanendo fedeli ad una carità che va incessantemente donata nel concreto di ogni giorno, se si vuole accedere al trionfo finale. “Riceverete la forza dello Spirito Santo che scenderà su di voi, e di me sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria e fino ai confini della terra”. E dunque la nostra presenza deve essere di testimonianza. Noi dobbiamo testimoniare nel processo che il mondo dimorante nel Maligno intenta a Dio accusandolo di inadempienze, di colpevolezza nei riguardi dell’uomo. Noi in questo processo assurdo, folle, testimoniamo che Dio è bontà infinita, provvidenza inesausta, perdono senza riserve, dono di sé nella comunione con lui che ci offre fedeltà assoluta, veridicità senza offuscamenti, pace dolce, tenerezza premurosa, forza che ci sostiene nel cammino, coinvolgimento con la nostra realtà umana, dolcezza intima dei nostri cuori, pur nelle prove più fiere. Noi testimoni dell’Amore dobbiamo smentire, nella forza dello Spirito Santo, il mondo e colui che lo avvelena: il Maligno. Il tribunale giudicante Dio è illegittimo, falso; le condanne pronunciate nei confronti di Dio sono mostruose; quella più spietata è averlo dichiarato colpevole dei mali del mondo e condannato all’esilio dalla storia, a morte nel ricordo degli uomini. Ma Dio è presente con la forza del suo Spirito, che anima i suoi testimoni. Essi seguono un vincente che è salito trionfante al cielo, che siede plenipotenziario alla destra di Dio Padre, e che verrà a giudicare i vivi e i morti in un tribunale assolutamente legittimo, santo, perfettissimo di giustizia. In quel tribunale, già pronto, i testimoni di Dio si trasformeranno in giudici (Mt 19,28; 1Cor 6,2). Il tribunale del mondo, inscenato e presieduto dal Maligno dà arrogante spettacolo di sé agli uomini e li vuole far diventare tutti accusatori. Ma ecco i testimoni che, pur giudicati nei tribunali del mondo e messi a morte, sono vincenti. Il loro sangue, i loro tormenti, fecondano i cuori. “Mi sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea”; sì a partire da Gerusalemme e dalla Giudea, terre che si erano poco accoglienti al Cristo, molto meno della Galilea e della Samaria. Non si arriva agli estremi confini della terra se non si testimonia dove si è suscitati. Non possiamo mandare missionari alle genti se non testimoniamo Cristo nelle nostre terre, nei luoghi dove siamo stati suscitati. Molti cristiani, anche quelli con autorità specifica sul gregge, sono diventati testimoni fiacchi, muti, meritando così le parole di Isaia (Is 56,10): “Sono tutti cani muti, incapaci di abbaiare; sonnecchiano accovacciati, amano appisolarsi”. Certo, non puntiamo il dito, ma è necessario dirlo. Ma, fratelli e sorelle, non diciamo noi nella celebrazione eucaristica queste parole (Cf. 1Cor 11,26): “Annunciamo la tua morte Signore, proclamiamo la tua risurrezione, nell’attesa della tua venuta” (Cf. 1Cor 11,26)? Annunciamo, proclamiamo; dunque siamo testimoni. Testimoni non con lei sole parole, ma anche con la vita. La nostra assemblea, costituita nel vincolo della carità di Cristo, è annuncio, è testimonianza. Testimonianza che non si conclude a Messa finita, ma che si riversa nelle famiglie, nei posti di lavoro, ovunque. Così ci esorta il brano della lettera agli Ebrei che abbiamo ascoltato: “Manteniamo senza vacillare la professione della nostra speranza, perché è degno di fede colui che ha promesso”. Oggi la liturgia ci tonifica con la contemplazione del Cristo vittorioso che sale al Padre, e per questo scopo ci presenta l’acclamazione trionfale del salmo 46/47: “Ascende Dio tra le acclamazioni (quelle degli angeli), il Signore al suono di tromba (dei cori, che cantano l’inno di ingresso). Cantate inni a Dio, cantate inni, cantate inni al nostro re, cantate inni; perché Dio è re di tutta la terra”. Il Signore è salito al cielo, quel cielo che è al di sopra di tutti i cieli astronomici: quelli dei telescopi, dei radiotelescopi, delle sonde spaziali. E’ salito al cielo in un battibaleno; a quel cielo che, mossi dal desiderio, cerchiamo di immaginare e del quale, anzi, la Scrittura ci dà immagini, adatte alla nostra mente qui in terra, come si vede nel libro dell’Apocalisse, ma che cadranno quando il cielo si svelerà a noi. Oggi la liturgia ci invita alla contemplazione e alla testimonianza. Una contemplazione che porta all’azione per gli uomini. Una nuvola, segno del mistero di Dio, ci invita a non volere penetrare oltre, che non ci riusciremmo, e ci sospinge, unitamente alla parola angelica, a impegnarci nella testimonianza viva del Vangelo, in attesa della venuta del Signore.

Laudetur Iesus Christe. Semper Laudetur

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