Le persecuzioni dei cristiani da Nerone alla metà del 3° secolo

  1. I primi imperatori romani non hanno perseguito i cristiani. Veramente Caludio (41-54) procedette verso il 50 contro gli Ebrei di Roma come aveva fatto già nel 41 contro quelli di Alessandria e li espulse perché, secondo Svetonio (Claud. 25), «stimolati da Cresto» («impulsore Chresto») (25), provocavano continui disordini. Il provvedimento colpì anche i cristiani di origine giudaica. (Atti, 78, 2: Aquila e Priscilla), che passavano ancora per una setta ebraica, ma non può essere considerato una persecuzione vera e propria. Questa la inaugurò invece il famigerato imperatore Nerone (54-68) (26) (Eus. II, 25, 5). Secondo Tacito («Annal.» XV, 44) lo spaventevole scoppio di furore contro i cristiani si ricollega all’incendio di Roma del luglio 64, del quale l’opinione pubblica incolpava l’imperatore stesso. Per distogliere il sospetto da sé e gettare in pasto al furore popolare una vittima, aiutato da delatori (di origine ebraica?), Nerone avrebbe fatto arrestare una immensa folla («multitudo ingens») di cristiani, dediti a una superstizione deleteria («exitialis superstitio») e odiati dal popolo «per le loro infamie»; nel corso dell’istruttoria non sarebbero stati convinti di aver appiccato l’incendio, ma «di odio contro il genere umano» e condannati sommariamente. In questa narrazione c’è qualche punto che rimane oscuro. Il nesso diretto fra questo modo di procedere e l’incendio di Roma è contestato (però a torto) da alcuni critici moderni, in quanto sembra che Tacito sia stato animato dalla tendenza a denigrare il più possibile Nerone. Per dare uno spettacolo al popolo le esecuzioni capitali furono effettuate nei giardini imperiali con forme raffinate di martirio (crocifissione, caccia di belve, torce viventi, rappresentazione cruenta di scene mitologiche, cfr. «I Clem.» 6: Danaidi e Dirci). A quanto pare la persecuzione si limitò alla capitale, ma vi durò fino alla morte di Nerone: fra le vittime ci furono anche gli apostoli Pietro e Paolo (v. § 9 e 10). L’impressione che questa persecuzione lasciò nel mondo romano fu forte e durevole; da allora in poi il nome di cristiano fu bandito e bollato come cosa criminale degna di morte (cfr. § 14, 3)
  2. Nel periodo immediatamente successivo, sotto i due primi imperatori della casa Flavia Vespasiano e Tito, i cristiani vissero di nuovo in pace. Ma negli ultimi anni di Domiziano (27) (81-96), che accentuò oltre misura il culto dell’imperatore, – si fece chiamare ufficialmente Dominus et Deus – e instaurò sotto ogni aspetto un odioso regime di terrore, nuove sofferenze piombarono su di loro. Persino il cugino dell’imperatore, il senatore e ex-console Tito Flavio Clemente, fu giustiziato sotto l’accusa di «ateismo» e di «deviazione verso costumi giudaici», e la moglie di lui, Flavia Domitilla, venne esiliata. In modo analogo deve essere probabilmente considerato martire anche il consolare Acilio Glabrione caduto a sua volta vittima della crudeltà di Domiziano. Sono poi da attribuire a questo periodo i martiri dell’Asia Minore menzionati nell’Apocalisse 2, 13 (Antipa di Pergamo) e 20, 4; a quanto pare essi furono giustiziati perché avevano rifiutato di prestare culto all’imperatore. L’apostolo Giovanni fu esiliato a Patmo (v. § II, I). Se è attendibile l’informazione di Egesippo (in Eusebio III, 19.20), il sospettoso imperatore, temendo di perdere il trono, chiamò dalla Palestina a Roma, a scopo d’inchiesta, persino i parenti di Gesù, ma essendo questi risultati politicamente innocui, li rimandò in patria. Questa persecuzione fu però insignificante in confronto con quella che l’aveva preceduta (Tert. «Apolog.» 5: Domitianus portio Neronis de crudelitate). Ma presa in sé non fu trascurabile; lo storico Dione Cassio ed altri parlano di molte vittime.
  3. Il mite imperatore Nerva (96-98) restituì la pace ai cristiani; egli vietò perfino l’accusa per crimine di lesa maestà e quella di vivere secondo i costumi giudaici, ovvero cristiani (Dione Cassio 68, 2). Sotto Traiano invece (98-117) (28), capo di stato valente e rigida tempra di soldato, che portò l’Impero Romano alla sua massima estensione, scoppiò una nuova persecuzione connessa col divieto di costituire società non permesse (eterie). Il vescovo Simeone di Gerusalemme dell’età di 120 anni, un parente di Gesù, fu crocifisso, e Ignazio, vescovo di Antiochia (§ 37, 4), venne dato in pasto alle belve a Roma. Notizie più precise possediamo per l’Asia Minore. Plinio il Giovane, proconsole di Bitinia e del Ponto, dopo aver mandato a morte numerosi cristiani e averne indotto altri a rinnegare la fede, impressionato dal grande numero di coloro che aderivano a questa «superstizione prava ed esorbitante», pregò nel 112 l’imperatore di voler dargli istruzioni in merito; Traiano, con suo rescritto, gli rispose non doversi fare d’ufficio ricerca dei cristiani, però, se fossero stati denunciati e confessi, doversi punire (conquirendi non sunt; si deferantur et arguantur, puniendi sunt), rimandando tuttavia in libertà quelli che avessero rinnegato la fede; inoltre vietò di accettare denunce anonime. Con tutto ciò la posizione dei cristiani risultava molto critica: in alto loco la religione che professavano era stata dichiarata esplicitamente non permessa e da punirsi con la morte. Il rescritto di Traiano, pur così contradditorio in sé (Tert. «Apolog.» II, 8) e sebbene non avesse inteso di impartire istruzioni con carattere definitivo, valide anche per i successori, servì tuttavia per lungo tempo di norma nella lotta dello stato contro il cristianesimo. I due imperatori che vennero dopo Traiano si mostrarono personalmente meglio disposti; con rescritti arrivarono persino al punto di proteggere i cristiani dagli eccessi così frequenti del fanatismo popolare in Grecia e nell’Asia Minore: ma la posizione giuridica di principio rimaneva immutata. L’imperatore Adriano (117/138) spirito illuminista in fatto di religione e politica, in un rescritto al proconsole della provincia d’Asia Minucio Fundano (29) verso il 128, minacciava pene per le denunce fatte a scopo di lucro e per le azioni tumultuarie contro i cristiani e ingiungeva che si seguisse una procedura regolamentare. Un atteggiamento simile assunse anche Antonino Pio (138-61). Stando a un suo rescritto riportato in Eusebio (IV, 13) ma probabilmente apocrifo, indirizzato alla dieta provinciale d’Asia, egli avrebbe vietato perfino ogni accusa di ateismo contro i cristiani. Quanto questi avessero a soffrire appare dalle apologie scritte allora da Quadrato, Aristide e Giustino (§ 38). Al tempo di Adriano, i cristiani della Palestina, non avendo voluto partecipare alla sollevazione di Barkochba (132-135), vennero sottoposti a gravi tribolazioni da parte degli Ebrei (Giust. «Apolog.» I, 31). Ireneo («Adv. Haer.» III, 3, 3) attesta il martirio di papa Telesforo (136). Durante il governo di Antonino si registra a Roma quello di Tolomeo e di due altri cristiani – ciò che indusse Giustino a scrivere la sua seconda Apologia – e, secondo i più recenti calcoli cronologici, anche il «glorioso martirio» (Ireneo, III. 3.4) dell’ottantaseienne Policarpo di Smime (§ 37, 5). Lo avevano preceduto nella morte undici compagni. Per quanto riguarda il prezioso racconto del martirio, v. § 37, 5.
  4. La quarta grande persecuzione è del tempo di Marco Aurelio (161-80) (30), un imperatore del resto eccellente, entusiasta della filosofia stoica. All’inizio del suo governo si verificarono gravi calamità: carestia e peste infierirono nel territorio dell’Impero, forti nemici barbari ne minacciavano i confini. Data la situazione, in più di un luogo, il popolo venne nuovamente eccitato contro i cristiani quali presunti autori di tante sciagure; furono aggrediti e vessati con rapine e devastazioni. L’imperatore stesso non riscontrava nella religione cristiana che spirito di contraddizione e stoltezza di visionari («Medit.» XI, 3). Il celebre retore Frontone, maestro dell’imperatore, pronunciò un discorso per aizzare contro i cristiani (ma forse ancora sotto Adriano); Celso pubblicò contro di loro lo scritto «Discorso veritiero» (§ 17, 1). Quanto fosse grave la persecuzione è provato anche dalle apologie di Atenagora, Melitone, Apollinare e Milziade (§ 38) indirizzate all’imperatore Marco. Veramente non fu emanato uno speciale editto di persecuzione, ma poteva essere agevolmente applicato ai cristiani un rescritto imperiale del 176, che minacciava di esilio i nobili e di morte i plebei che turbavano la pace del popolo introducendo nuovi culti. Al proconsole della Gallia l’imperatore, interpellato, confermò le direttive fissate da Traiano. I martiri più importanti in questo periodo sono i seguenti: a Roma fu decapitato l’eminente filosofo e apologeta Giustino (cfr. § 38) insieme con sei compagni; a Lione, dove la persecuzione incominciò con un aizzamento della plebe contro i cristiani, caddero nel 177 a un di presso 50 vittime, fra le quali il vescovo Fotino, più che novantenne, il diacono Santo di Vienne, la giovane schiava Blandina e l’adolescente Pontico (Eus. «H. E.» V, 1-2; lettera di Lione e Vienne alle chiese dell’Asia Minore sulla persecuzione); in Oriente subirono il martirio il vescovo Publio di Atene e il vescovo Sagari di Laodicea (Eus. IV, 23,2 ; 26,3), probabilmente a quest’epoca morirono anche il vescovo Carpo, il diacono Papilo e la cristiana Agatonice, che furono arsi a Pergamo. Non è degna di fede la notizia che l’imperatore, dopo la campagna contro i Quadi e i Marcomanni, abbia vietato l’ulteriore persecuzione della nuova religione, poiché egli stesso attribuì il suo scampato pericolo di morir di sete con l’esercito (pioggia miracolosa) e la vittoria sui nemici a Giove Pluvio, non alla preghiera dei cristiani dell’esercito, come vorrebbe l’antica leggenda della Legio fulminea (31). Giorni più tranquilli tornarono soltanto coll’avvento al potere del figlio indegno di Marco Aurelio Commodo (180-192), soprattutto forse per l’influsso esercitato sull’imperatore dalla sua concubina, cioè dalla sua moglie morganatica Marcia, ben disposta verso i cristiani, forse cristiana essa stessa (dal 183). Per sua intercessione i cristiani che languivano nelle miniere di piombo della Sardegna vennero liberati. In parecchie provincie si poterono tenere senza difficoltà dei sinodi per la controversia sulla festa di Pasqua (§ 25, 3). Tuttavia si ebbero ancora martirii singoli. A Cartagine furono decapitati (17 luglio 180) 6 cristiani (3 uomini e 3 donne) di Scilli in Numidia. A Roma morì (verso il 195) Apollonio (senatore?), uomo distinto, fornito di una cultura filosofica, il quale pronunciò davanti ai giudici una forte arringa in sua difesa. Nell’Asia Minore infierì per qualche tempo contro i cristiani (Tert. «Ad Scap.» 5) il proconsole Arrio Antonino.
  5. L‘africano Settimio Severo (193-211) (32) continuò sulle prime la politica di tolleranza del suo predecessore; anzi si mostrò personalmente benevolo verso i cristiani. Qualche tempo dopo invece mutò atteggiamento, irritato a causa di sommosse giudaiche e con tutta probabilità reso anche diffidente dal numero di cristiani sempre in aumento nei ceti più elevati. Con la minaccia di pene severe vietò il passaggio formale al giudaismo mediante la circoncisione (201) e poco dopo anche il passaggio al cristianesimo (202) di modo che la persecuzione venne a colpire in primo luogo i catecumeni e i neobattezzati. Notizie più particolari circa la persecuzione le abbiamo dall’Egitto e dall’Africa (Eus. VI, I-5). In Alessandria morirono Leonida e parecchi catecumeni del figlio di lui Origene. Nell’anfiteatro di Cartagine avvenne (il 7 marzo 202 o 203) il famoso martirio di s. Perpetua e s. Felicita (33) e di tre uomini; ne possediamo una relazione commovente, una vera perla fra gli Atti dei martiri, dovuta con tutta probabilità a Tertulliano. Già negli ultimi anni di Settimio Severo (dal 208 circa) subentrò una relativa calma, che durò a lungo, sebbene la raccolta (perduta) di rescritti imperiali contro il cristianesimo compilata allora (verso il 215) dall’esimio giureconsulto Domizio Ulpiano (Lattanzio, Instit. V, II) faccia pensare a umori costantemente ostili nei circoli dell’alta burocrazia. Marco Aurelio Antonino, detto Caracalla (211-217), uno dei peggiori imperatori, ebbe una particolare clemenza verso i cristiani, che va attribuita probabilmente ai suoi ricordi giovanili (lacte christiano educatus, Tert. «Ad Scap.» 4). Naturalmente, data la legislazione vigente, era sempre possibile qualche persecuzione locale, come in Africa sotto il proconsole Scapula (211/12) al quale Tertulliano diresse uno scritto polemico molto energico.
  6. Con Caracalla si apre il periodo dei cosiddetti imperatori siri (211-235) (34), inaugurato dalla madre di lui, l’aramaica Giulia Domna, figlia del sommo sacerdote del dio Sole di Emesa, moglie di Settimio Severo (cfr. § 17, 2). È uno dei più confusi e funesti della storia romana, contrassegnato dal predominio del potere militare e delle donne (Giulia Domna, la sorella Giulia Mesa e le loro figlie: le quattro Giulie), dalla disorganizzazione interna ed esterna dell’Impero, dal progressivo livellamento fra Oriente e Occidente (Caracalla, nel 212, concede il diritto di cittadinanza romana a tutti i sudditi liberi), dalle religioni misteriche dell’Oriente, che invadono a guisa di ognor crescente marea l’Occidente (cfr. § 5,1.3), soprattutto il culto del Sole (Sol invictus Mithras). Probabilmente Caracalla riconobbe con apposito editto le religioni straniere (orientali) e le inserì nel culto romano di stato. Fu in questo tempo che in Alessandria sorse la filosofia religiosa idealistica del neoplatonismo (cfr. § 17, 2). Il giovane Elagabalo (218-22), che screditò il trono coi vizi e con le orgie più obbrobriose, sostituì per diversi anni alla religione romana di Stato il culto del Baal di Emesa e si chiamò “Sacerdos amplissimus Dei invitti Solis Elagabali”. Si crede che egli abbia vagheggiato il piano di fondere tutte le religioni, anche il giudaismo e il cristianesimo, col suo culto del Sole. Suo cugino Alessandro Severo (225-235), di nobili sentimenti e coscienzioso ma debole, trattò i cristiani con maggiore benevolenza di tutti gli altri imperatori romani. Il suo biografo Lampridio («Alex. Sev.» 22) scrive di lui: “Christianos esse passus est”. Non solo tollerava numerosi fedeli fra il personale di corte, ma conversava anche amichevolmente col dotto teologo laico Giulio Africano (§ 39, 5), fece scrivere sul suo palazzo e sugli edifici statali, in forma negativa, la norma aurea dell’amore del prossimo (Mt. 7, 12) e a Roma, in una lite con dei tavernari assegnò ai cristiani un terreno per scopi di culto. Non è degna di fede la notizia del biografo (cap. 23), secondo la quale Alessandro avrebbe fatto erigere un tempio a Cristo e avrebbe voluto assumerlo tra gli dèi, ed è per lo meno assai dubbia l’altra (c. 29), secondo cui gli avrebbe dedicato un busto nel suo larario accanto ai busti di Apollonio di Tiana (§ 17, 2), di Abramo, di Orfeo, dei migliori tra gli imperatori precedenti e dei suoi avi. Ben più si accostò al cristianesimo la madre dell’imperatore Giulia Mamea, donna intelligente ma avida di potere. Essa infatti aveva stretto relazione coi teologi più in vista di quel tempo: chiamò ad Antiochia Origene (nel 232) per averne conferenze di argomento religioso, e il presbitero romano Ippolito le dedicò uno scritto sulla risurrezione: ma come cristiana la presentano solo autori posteriori al secolo IV: Rufino, Orosio e altri storici. In ogni modo la Chiesa cristiana trasse dalla situazione favorevole di quel tempo grandi vantaggi e prima di Costantino non fu mai tanto vicina a un riconoscimento ufficiale come in quell’epoca. Ciò non toglie che, persistendo le leggi contro i cristiani, qualche martirio vi sia stato anche in quei tempi di relativa calma, come quello di s. Cecilia, che di solito si fa cadere nel periodo del governo di Alessandro Severo, poiché ricorre negli Atti il nome di un vescovo Urbano (= papa Urbano 222-30?). Non è peraltro da escludere con certezza una data posteriore (persecuzione di Valeriano o di Diocleziano). Gli Atti medesimi sono del tutto leggendari come quelli di altri martiri della città di Roma, di s. Agnese, s. Lorenzo, s. Sebastiano, s. Martina, ecc., cosicché ben difficilmente si può cavarne un singolo dato sicuro. Il fatto del martirio come tale viene provato con certezza dall’antico culto.
  7. L‘assassinio di Alessandro e di Mamea nell’accampamento sul Reno determinò anche per la Chiesa un brusco repentino capovolgimento. Ebbe dall’esercito la porpora imperiale Massimino Trace (235-238) il «primo barbaro» sul trono dei Cesari, il quale, come perseguitò tutti i fautori del suo predecessore, così infierì in modo speciale contro i cristiani, che quegli aveva rispettati. Il suo editto prese di mira in particolare i capi delle comunità, cioè l’alto clero. Il papa Ponziano e l’antivescovo Ippolito (§ 32, 4; 39, 4) furono esiliati in Sardegna, dove il clima portò loro presto la morte. Ippolito fu sepolto nel cimitero della via Tiburtina, che da lui prese il nome, l’epitafio di Ponziano venne ritrovato nel 1909, nella catacomba di S. Callisto. Non ci furono però, a quanto pare, persecuzioni di notevole entità, eccetto che nelle province della Cappadocia e del Ponto, dove il fanatismo del popolo contro i cristiani venne eccitato da terremoti devastatori. L’ostilità non fu poi di lunga durata. A quanto pare Massimino stesso se ne ritrasse e la pace continuò a regnare sotto Gordiano III (238-44) e Filippo Arabo (244-49), figlio di uno sceicco beduino di Bostra, che fu di nuovo assai favorevole ai cristiani. Origene fu in corrispondenza epistolare con lui e la moglie Severa. Intorno a Filippo si sparse presto fra i cristiani persino la voce (Eus. VI, 34; VII, 10.3) che egli stesso fosse cristiano e che, colpevole di grave omicidio, si fosse sottoposto (in Antiochia) alla penitenza ecclesiastica. Ma sulle monete della celebrazione millenaria di Roma (248) egli figura come Pontifex Maximus in atto di sacrificare e anche nel resto appare nella vita pubblica regolarmente come pagano.
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